Il lavoro autonomo e le professioni in Italia dopo il Covid


Chiaramente le trasformazioni in corso, accelerate dal post pandemia, renderanno ancora meno fotografabile il settore del lavoro autonomo, ma ciò non deve portarci a rinunciare ad un’analisi attenta - o peggio - a proseguire con luoghi comuni.
Il bacino di oltre 5 milioni di lavoratori indipendenti è molto composito e diversificato. 

I dati Istat ci dicono che il mondo dei lavoratori indipendenti è certamente magmatico e negli ultimi anni in sofferenza. Un mondo da saper leggere ed interpretare, con uno zoccolo duro di professionisti ordinistici mediamente stabile ed un’area in trasformazione, fortemente caratterizzata da scelte estemporanee e da convenienze e necessità fiscali non sempre stabili. 

Parliamo della parte più mobile del mercato del lavoro, ovviamente, ma che può dirci molto anche rispetto a quello definito ‘lavoro tradizionale’, che tanto tradizionale non è più se pensiamo al lavoro agile e ai lavori in piattaforma.

Una premessa è ormai d’obbligo: di fronte a vite lavorative lunghe ed incerte, moltissimi durante l’arco della propria carriera lavorativa svolgono e svolgeranno più lavori anche con diverse forme contrattuali. Per questo non è facile effettuare un’analisi valida nel tempo. 
Un esempio di questa crescente volatilità ci è dato dal mondo delle libere professioni che ormai da qualche anno è oggetto di attenzione da parte della politica anche sotto il profilo lavoristico e non solo fiscale.

Si pensi all’introduzione di alcune misure di welfare come sgravi fiscali sulle spese per l’orientamento e la formazione (L. 81/2017) o alle numerose misure Covid riguardanti il sostegno al reddito o l’esonero dei contributi.
Le informazioni oggi messe a disposizione da parte dell’Adepp, Confprofessioni, Istat, Inps e altre istituzioni ci permettono di fotografare alcuni trend utili per conoscere meglio il mercato del lavoro dei servizi professionali.
Ne richiamiamo qui alcuni. 

L’invecchiamento della platea, una crescita della componente femminile in tutte le professioni, il consolidamento di diversi gap (specialmente quello del reddito tra generazioni). Quegli stessi gap esistenti nell’universale mercato del lavoro italiano: geografico e di genere. Una proletarizzazione sta riguardando percentuali alte della platea, con numerosi professionisti con redditi che non superano i 30 mila euro annui, come è emerso dal numero di istanze presentate per beneficiare degli aiuti Covid (RUI).

Certamente, Il settore non è statico come lo è stato per anni, ma in forte trasformazione e chiaramente interessato dalle importanti transizioni di oggi: digitale, green e quella della globalizzazione dei mercati. Software avanzati, intelligenza artificiale, blockchain e machine learning avranno un effetto dirompente anche sui servizi professionali.

Tutto questo ci suggerisce che occorre ridisegnare la libera professione nella fase di formazione del futuro professionista e nell’attività di aggiornamento del lavoratore, che dovrà essere continua durante la carriera professionale al fine di ammortizzare i mutamenti che il mercato del lavoro gli riserverà.

Le criticità che stanno interessando il settore dei professionisti sono molteplici. Partiamo dai dati.
Secondo quanto riportato dai registri del Miur, Ministero della Giustizia e dalle Casse e Ordini di competenza, le nuove abilitazioni agli albi sono diminuite del 15,5% in 10 anni e le cessazioni sono frequenti.

Si pensi alla saturazione di alcuni settori. Specialmente in quello giuridico si registrano 245 mila iscritti all’albo degli avvocati, il dato più alto nell’Eurozona, con picchi di 7 legali ogni 1000 abitanti in Calabria.  Nell’ultimo decennio si è assistito ad un allungamento della durata media necessaria per il reperimento del lavoro dopo la laurea (di secondo livello o quelle a ciclo unico) e ad una dilatazione temporale della “gavetta” cui il giovane professionista è sottoposto per raggiungere i redditi medi dichiarati dagli iscritti alle Casse over 40. Sono circa 23 i mesi che un neolaurato in giurisprudenza deve attendere dall’abilitazione all’avvocatura per percepire il primo reddito che non supera i 1.412€, 8,9 mesi per gli architetti con una prima mensilità di 1.501€ e circa 15,9 i mesi che attendono gli esperti contabili per godere della prima retribuzione. 

Le libere professioni, nonostante una fase ventennale di crescita in termini di iscritti ad albi e casse, hanno visto consolidarsi il divario retributivo generazionale e geografico (20.028 € percepiti da un consulente del lavoro calabrese e 93.105 gli euro percepiti da un collega altoatesino).

Non ultime, stanno influendo in questo trend le nuove opportunità lavorative offerte dal Pnrr - contratti indeterminati, a termine e a chiamata – le quali stanno dirottando gran parte dei giovani laureati verso la dipendenza speranzosi di una stabilità retributiva e contributiva non sempre garantita a chi sceglie di mettersi in proprio in questo clima di incertezza. 

La somma di queste incognite sta determinando una crisi delle vocazioni (specie per le professioni “classiche”) come ci dimostra il crollo del numero di abilitazioni alla professione di Dottore Commercialista nel decennio 2010 –2019 (-64,1%) o il -41,6% per i Geometri ed un aumento del fenomeno delle cancellazioni dalle Casse di previdenza (6 mila dal 2012 al 2019).

Questi numeri sono costituiti da professionisti scoraggiati e senza una clientela consolidata con un comune denominatore: sono giovani e del centro sud, pronti a cambiare attività in presenza di opportunità più convenienti.
Si pensi che per tamponare le emorragie di giovani iscritti molti amministratori di Casse e Ordini hanno adito a straordinarie misure di sostegno come polizze Rc gratuite, garanzie su finanziamenti bancari o crediti speciali per passaggi della titolarità dello studio.

Le prime due crisi del terzo millennio, quella finanziaria prima e quella pandemica poi, hanno costretto molte realtà aziendali ad attuare una drastica riduzione dell’outsourcing di servizi professionali (consulenze legali, contabili e informatiche), in cambio di una internalizzazione di professionisti, soprattutto giovani, da inserire nella propria organizzazione interna.

Questa tendenza è mossa dalla necessità per le aziende di abbattere i costi che si verrebbero a creare avvalendosi di società terze per la fruizione di servizi specializzati. A ciò è seguito un conseguente abbassamento delle fee riconosciute alle società di avvocati, ingegneri, informatici ecc.. nell’ottica di una maggiore competitività “al ribasso” sul mercato.  Molti hanno colto queste opportunità stanchi della condizione precaria cui erano relegati.

Inoltre i molti professionisti con un’attività già avviata, anche per ammortizzare i rischi e le perdite di mercato, hanno deciso di aggregarsi in Società o Studi associati capaci di operare oltre il mercato locale a discapito delle ditte unipersonali guidate perlopiù da specialisti più maturi. L’esempio dei consulenti del lavoro è incisivo: dalle 119 società tra professionisti (Stp) attive nel 2018 si è passati a 622 nel 2021 (dati Enpacl). 

I costi di start up di uno studio inoltre sono cresciuti notevolmente tra immobili, attrezzature tecnologiche, assicurazione professionale, formazione continua, oneri fiscali e adempimenti in materia di privacy, che richiedono il ricorso a consulenti. 
Insomma, la professione sta facendo fatica a regalare grandi soddisfazioni e sul piano reddituale e in termini di appagamento causando lo spreco dei tanti investimenti in formazione/aggiornamento professionale. 
Il mondo è cambiato è la scelta del lavoro autonomo non può essere una scelta di ripiego.

Quali azioni mettere in campo?
Anzitutto “alla fonte” serve accompagnare i giovani che scelgono la professione con percorsi formativi multidisciplinari e mediante percorsi universitari utili sia ai nuovi professionisti sia ai collaboratori dei “nuovi” studi. Oltre quelle accademiche e tecniche, urgono le competenze trasversali o “soft skills”: quelle comunicative e di marketing, le competenze digitali, statistiche e sociali come l’empatia e l’assertività. 

Ciò per rendere lo studente più equipaggiato e consapevole anche col fine di superare meglio possibili difficoltà e remore che sorgono durante gli studi universitari prima di intraprendere il percorso della professione. 
Per le realtà già costituite possiamo richiamare alcune best practice degli studi più performanti che sono riusciti a sostenere l’impatto della pandemia e delle grandi trasformazioni del settore. 

Rendere i collaboratori compartecipi dell’andamento dello studio, valorizzando il loro apporto e aumentando il senso di appartenenza. 

Adottare un approccio olistico che vede lo studio come una unità organica per la quale tutti i membri del team, soprattutto i più giovani ed il personale dipendente, hanno un ruolo chiave nel successo dello studio. Ciò con l’ottica di consolidare il valore del brand, il potenziale apportato dal networking e la capacità di gestire i numerosi cambiamenti. 
Occorre promuovere politiche attive anche per agevolare la transizione dall’università all’attività professionale, cercando di promuovere studi multidisciplinari e digitali, capaci di operare su più mercati. Nessun lavoro è per sempre, neanche nel settore delle professioni. 

Per evitare lo spreco di capitale umano la ricetta è la specializzazione e la formazione continua.

Alessandro Verbaro

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