La vite e il vino nel mondo romano


<<Sunt et in vino prodigia>> affermava Plinio il Vecchio nel XIV libro della sua Naturalis historia.

Il vino, dunque, è l’indiscusso sovrano delle bevande dell’antichità.

Nel mondo romano la fama di un vino dipendeva oltre dai caratteri organolettici, anche dalla sua presenza sui mercati: il commercio dei vini oggi si studia con le carte di distribuzioni dei contenitori impiegati per il loro trasferimento via mare, cioè le anfore di trasporto.

Dal momento che ogni centro produttore fabbricava le proprie anfore, possiamo dire che le rotte dei vini antichi sono quasi tutte ben conosciute, dalla vigna sino al luogo di consumo: tra le più note per la foggia e la qualità del contenuto vanno ricordate le anfore provenienti dalle isole di Chio e di Samo.

Il mondo antico risulta ricco di un’insospettata varietà di uva tanto che Virgilio presenta nelle Georgiche un elenco degno di un moderno intenditore, citandone alcune che provengono da ogni angolo del Mediterraneo: le uve di Argo, di Rodi, altre celebri viti prodotte in terra italica.

Le viti più coltivate nella Penisola, in particolare nelle zone dell’Italia Meridionale sono le Amine, le Nomentane e le Apiane.

Lucio Giunio Moderato Columella, scrittore romano del I sec. d.C. è convinto che ogni luogo e clima abbiano la loro vite migliore, tanto da consigliare al contadino di scegliere per i climi freddi e nebbiosi le viti con una maturazione precoce; per i climi secchi quelle intolleranti alle piogge abbondanti; per i climi ventosi e burrascosi le uve dall’acino duro e resistente; per i climi caldi le uve dall’acino morbido e tenero e per il clima piovoso quelle che patiscono la siccità.

Nel I sec. d. C. si intuiscono le potenzialità della biodiversità della vite che, con la sua ricchezza e varietà, garantisce un adattamento a climi differenti e a terreni diversi.

I Romani non bevevano mai allo stato puro, ma sempre mescolato ad acqua calda o fredda e addizionato con miele, timo, origano, sale, zolfo e resine varie.

Anche nell’antichità la vendemmia è uno dei momenti decisivi nel ciclo di produzione del vino.

Spesso effettuata nel periodo autunnale, la raccolta richiede però la valutazione attenta da parte dell’agricoltore, quali il sapore degli acini e la colorazione dell’uva stessa.

Fra gli autori classici, Varrone ricorda, l’anedotto secondo cui i bravi vendemmiatori sono in grado, già al momento della raccolta, non solo di selezionare le uve migliori,ma anche di scegliere se destinare i singoli grappoli alla produzione del vino, oppure indirizzarli alla tavola.

Nel periodo della vendemmia si raccoglieva l’uva e si portava nel torcularium per la torchiatura effettuata mediante due operazioni: la prima era quella di calpestare i grappoli a piedi nudi, seguiva la fase della premitura effettuata su vinacce e graspi spingendo il tocular, ovvero il torchio.

Al fine di propiziare il buon esito della vendemmia, nel mondo romano sono stati istituiti riti benauguranti, fra i quali, l’auspicatio vindemiae.

Il sacerdote preposto al culto di Giove, flamen dialis recide il primo grappolo, offrendolo al supremo fra gli dei. Questo rituale risale alle origini di Roma e deve essersi tramandato fino all’epoca imperiale


Viviana Caparelli

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