I giovani sono l’antidoto per la rinascita
«É tempo di liberare il futuro dalla retorica paternalista» scrive Alessandro Rosina, professore di demografia e statistica sociale presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore. Ed io non posso che introdurre l’articolo con questa ineccepibile affermazione. Aggiungo. l’Italia è satura del protagonismo sovrabbondante delle generazioni mature e che abbisogna di favorire il ruolo attivo e prorompente dei giovani.
I dati
Tutto è fatto per il futuro in natura, ma in Italia si ragiona, al contrario, con i soli schemi del passato incastrati in un eterno presente. Decenni di scelte fallimentari per la qualità dei sistemi formativi, di orientamento al lavoro e professionali hanno progressivamente formato un esercito di scoraggiati e precari.
Passiamo in rassegna alcuni dei problemi che affliggono le nuove generazioni per avere giusto la cognizione del dissesto socio economico in cui esse versano e che la pandemia non ha potuto che peggiorare.
Abbiamo giovani istruiti dai tanti posti precari che verranno soppressi dalle imprese, 2 milioni i neet (22,7 giovani su 100 e quasi il 35% nel mezzogiorno) nel 2019 secondo l’Eurostat e una disoccupazione giovanile al 29,7% a fronte di una media europea del 12,5%. Tra questi ultimi molte sono le donne, anche laureate, che hanno ripiegato ad una vita domestica per esigenze familiari.
Primi in Europa per abbandono scolastico (13,7% dei ragazzi fra i 18 e i 24 anni). Un’emorragia di energia, talento e di opportunità che da anni attende una risposta.
In Italia al giorno d’oggi, a differenza di quanto avvenne durante il boom economico del secolo scorso, è la famiglia di origine a fare la differenza. Ne consegue dunque che l’ascensore sociale si è bloccato.
Lo scarso investimento pubblico nella formazione, ad esempio, viene compensato dal proprio nucleo familiare di origine. Chi può permetterselo - le famiglie abbienti - investe nella formazione dei propri figli ma chi nasce in una situazione svantaggiata viene tagliato fuori sia per un inesistente supporto pubblico sia per una disaffezione all’istruzione quale elemento di riscatto.
I giovani che cercano un lavoro hanno 2-3 volte meno la possibilità di trovarlo rispetto a chi ha più 55 anni poiché in tempi di incertezza si privilegia l’esperienza.
Per un giovane privo di precedenti esperienze per la semplice anagrafica ragione per cui si affaccia ora sul mondo dell’occupazione, è difficilissimo trovare lavoro.
A causa di una carriera professionale frammentata, precaria e posticipata, un giovane italiano, si porterà dietro per moltissimi anni l’eredità della lunga attesa: guadagnerà meno, avrà meno prospettive di carriera, sarà il primo a perdere il posto in caso di successive crisi perché gli avranno fatto un contratto meno garantito (i giovani con contratti a termine tra i 25 e i 34 anni sono il 17%).
Peggiora la difficoltà di raggiungere l’indipendenza nella fascia di età tra i 18 e i 34 anni: il 64,3% nel 2020 vive ancora con almeno un genitore contro una media UE del 48,2% (nel 2010 erano il 58,6%).
Soffriamo di un welfare carente nelle politiche di sostegno alle famiglie con figli. Ad esempio, il tasso di copertura dei servizi per l’infanzia rivolti ai bambini tra i 0 e i 3 anni, come gli asili nido e servizi integrativi, sfiora il 26% e fatica a raggiungere gli obiettivi europei del 33% (secondo il Consiglio Europeo di Barcellona del 2002).
Alla luce dei dati riportati finora è evidente constatare il fatto di come sia peggiorata l’erosione del senso di fiducia e della visione positiva del futuro.
Certamente il disagio generazionale non è stato del tutto ignorato dalle istituzioni, ma le misure sin qui partorite e adottate hanno presentato due comuni grandi limiti di fondo: peccano di una mancanza di coinvolgimento e di vera conoscenza dei giovani e dell’assenza di un disegno organico unico con obiettivi chiari e stabili.
Si sono susseguite cioè una moltitudine di azioni indipendenti l’una dall’altra fatte partire con una certa improvvisazione portando ad esiti limitati e a volte insoddisfacenti in termini di rafforzamento della presenza qualificata dei giovani all’interno dei processi. Un esempio valido a sostegno di tale tesi va ricercato in Garanzia Giovani tramite la quale in sette anni solo 1 giovane su 3 ha trovato lavoro, in buona parte a tempo determinato. Più precisamente parliamo di 412 mila giovani under 29 su un totale di 1,2 milioni presi in carico dai centri per l’impiego.
Le criticità
Il persistente stock di giovani inattivi, che non perseguono corsi di aggiornamento formativo o che sono stati istruiti in discipline e con metodologie accademiche oramai obsolete, avranno sempre maggiori difficoltà ad inserirsi in un’economia che necessita di nuove competenze ‘hard’ e che langue di quelle ‘soft’. La stragrande maggioranza dei neet nonostante appartenenti alla cosiddetta generazione dei “nativi digitali“ è paradossalmente priva di competenze digitali di base.
Nei contesti in cui non si investe su di loro, la collettività intera percepisce ricadute negative: i giovani che partecipano di meno al mercato del lavoro rimangono più a lungo dipendenti dai genitori, si accontentano di svolgere lavori in nero o sottopagati oppure se ne vanno altrove (16 mld il costo per l’Italia della fuga dei cervelli).
Gli ultimi arrivati che si interfacciano per la prima volta al mondo del lavoro sono considerati per un paese trincerato da decenni in difesa, al pari di un rimpiazzo a basso costo anziché forza al servizio della conquista di nuovi spazi strategici di sviluppo.
Così l’economia non cresce e non si formano nuove famiglie. Ecco spiegata una delle cause della progressiva diminuzione delle nascite e del costante invecchiamento della popolazione che alzano l’età media dei cittadini italiani a 45,7 anni (Istat 2020).
Cosa significa questo sul piano previdenziale e assistenziale in un’ottica di medio-lungo termine?
Risorse sempre più scarse da redistribuire e conseguente aumento delle disuguaglianze socio-generazionali.
In Italia ci troviamo con meno giovani rispetto al resto d’Europa e anziché valorizzare quei pochi che abbiamo, dotiamo i ragazzi di strumenti insufficienti per renderli preparati, attivi e vincenti rispetto alle sfide del proprio tempo.
Il ruolo delle nuove generazioni non è, infatti, semplicemente quello di occupare il posto delle precedenti. Esse devono poter trasformare in modo efficace con le loro idee e con nuove soluzioni la società in cui vivono, mettendo in relazione il meglio della conoscenza scientifica del proprio tempo con le opportunità di innovazione dei beni e servizi.
L’insegnamento che traiamo dai, purtroppo sporadici, successi dell’imprenditoria giovanile non è solo che la condizione delle nuove generazioni e lo sviluppo economico sono legati, ma anche che, per superare le fasi di difficoltà e di rilancio da una discontinuità, serve un progetto Paese in cui le nuove generazioni possano riconoscere una propria parte attiva. Un Paese cioè che sappia investire nel futuro senza considerarlo lontano, solo perché sommerso dalle emergenze di oggi e dalle pesanti eredità del passato (debito previdenziale, infrastrutturale…).
Un miglioramento delle condizioni oggettive, la visione di un futuro migliore e l’incoraggiamento a realizzare le proprie scelte di vita sono ingranaggi che devono ben integrarsi e girare assieme per alimentare il processo di produzione di nuovo benessere in una comunità. Se non si invertiranno gli indicatori del benessere dei giovani, e quindi dell’intera collettività, usufruendo funzionalmente delle ingenti risorse concesse dall’Europa, l’Italia avrà perso l’ultima possibilità di rimanere agganciata ai processi più avanzati di sviluppo di questo secolo. L’innovazione non può che venire dai giovani attivi, che studiano, che riescono a crescere con pluralità di esperienze.
Uno sguardo al futuro
Più di un terzo della forza lavoro attuale svolge professioni che cresceranno nei prossimi dieci anni, ma più del 50% delle professioni evolveranno in modo non lineare. Vedremo in molti casi la fusione di due o più professioni esistenti con la sparizione delle professioni di origine, la creazione di nuove professioni per la scissione di competenze mentre altre professioni muteranno per ibridazione. Saranno comunque richieste figure professionali tradizionali ma qualificate nel settore della cura della persona (si pensi che negli anni a venire un numero sempre più crescente di persone non autosufficienti avranno bisogno di supporto).
I processi di polarizzazione del mercato del lavoro cui abbiamo assistito negli ultimi anni si invertiranno. La crescita dell’occupazione si concentrerà sui livelli di qualifiche più alti.
La crescita professionale sarà, anche se a dire il vero già lo è, subordinata al valore aggiunto che la persona sarà in grado di apportare al settore grazie alle sue caratteristiche personali che, aggiungiamo, dovrebbero essere incluse in qualsivoglia programma formativo ed educativo che miri a contrastare il fenomeno della disemployability.
Per caratteristiche personali intendiamo quelle peculiarità proprie dell’individuo richieste maggiormente dalle imprese per l’efficientamento della gestione: l’apprendimento attivo attraverso forme sociali e relazionali, capacità di adattamento, di anticipazione e comprensione degli altri, complex problem-solving ect…
Il Covid ha accelerato queste dinamiche già in corso accentuando processi di digitalizzazione e iperconnessione che richiedono profili di competenze compositi in grado di gestire la complessità in contesti lavorativi oggi difficili da immaginare.
Insomma, occorre porre un’attenzione maggiore alle richieste del mercato del lavoro anche con uno sguardo di lunga visione poiché entro il 2050 il mondo del lavoro sarà rivoluzionato dalla tecnologia.
Le istituzioni dovrebbero volgere lo sguardo ai primi stadi di vita dell’individuo, ripensare i sistemi educativi lineari che operano su cicli lunghi, mettere a fuoco le competenze della persona, nonché le attività massime di formazione ad oggi poco incentrate sul singolo.
Il talento, ricordiamolo, è la prima pelle all’interno della quale sviluppare o fortificare alcune competenze e caratteristiche della persona.
Essenziale è, per questo e per gli esecutivi che verranno, l’impegno nel rilanciare il tema delle competenze nei percorsi di istruzione, leve strategiche fondamentali su cui investire per costruire la next generation necessaria al rilancio del paese. Nessuna solida prospettiva di costruzione di un futuro migliore del presente è, infatti, possibile escludendo o coinvolgendo solo formalmente i giovani.
Il contributo qualificato delle nuove generazioni é ciò che più é mancato ai processi di produzione di benessere nel nostro paese e senza tale contributo nei prossimi anni la combinazione tra peso del debito pubblico e squilibri demografici é destinata a diventare insostenibile.
Soluzioni
Dunque, con le nuove generazioni va ricreato un nuovo percorso di vita per definire l’idea di paese in cui vogliamo riconoscerci.
Serve ricreare un modello sociale e di sviluppo diverso non ‘per’ ma ‘con’ i giovani nel rispetto della sostenibilità ambientale.
«Il nuovo decennio in cui siamo entrati sarà diverso nella misura in cui il ruolo delle nuove generazioni nella società e nell’economia sarà essere diverso» scrive sempre Rosina.
È inverosimile una ripresa economica del Paese senza il protagonismo dei giovani.
Il protagonismo dei giovani deve concretizzarsi su aiuti e sostegni che dovrebbero articolarsi su due vettori di analisi.
Ripensare i sistemi educativi e formativi.
I dati sull’occupazione riflettono le scelte della scuola superiore. È in corso un fenomeno decennale di liceizzazione della scuola a fronte di cambiamenti epocali che definiscono con chiarezza le conoscenze e le competenze utili ad affrontare il post-COVID. Per invertire queste dinamiche è necessario impegnarsi in politiche di orientamento capaci di creare connessioni tra la scuola e il mondo del lavoro. Serve anche un antidoto alla sovrarappresentazione mediatica di professioni che il mercato non è in grado di assorbire ma che nell’immaginario collettivo appaiono ancora come vie di sicuro accesso al lavoro (quali gli avvocati o i giornalisti).
É doveroso stimolare una riflessione sulla necessità di innovare i programmi didattici potenziando l’offerta di istruzione tecnica e professionale e sensibilizzando i giovani allo studio di discipline tecnico-scientifiche (cosiddette materie Stem).
Superare il disallineamento tra percorsi di studio ed esigenze del mercato del lavoro tramite l’orientamento degli studenti nell’ottica dell’occupabilità (circa un terzo delle imprese italiane lamentano difficoltà di reclutamento). Strategico in questo deve essere anche riuscire ad armonizzare le legittime aspettative dei ragazzi con le esigenze dell’economia che verrà.
Il focus deve contestualmente spostarsi dallo skill-mismatch alla disemployability ossia l’esclusione strutturale dal mercato del lavoro che nel nostro paese si concentra sui giovani a causa degli impatti settoriali della crisi e di processi di lungo periodo di polarizzazione asimmetrica del mercato italiano che crea molti più posti di lavoro a bassa qualifica (facilmente automatizzabili) piuttosto che occupazioni qualificate.
Per questo dobbiamo intercettare l’esercito disperso di neet, ricondurli nei circuiti formativi in linea con le esigenze delle imprese e favorire il loro inserimento nel mondo del lavoro per sottrarli ad un destino di marginalizzazione.
Reimpostare il modello di welfare colmando il divario generazionale italiano.
Il welfare attuale è, di fatti, sbilanciato in favore delle fasce più mature (204 mld di euro di spesa previdenziale annua per 17,8 mln di beneficiari) e rimangono scoperte le fasce più giovani sulle quali, inoltre, incombe un enorme debito pubblico di cui non hanno colpa. Nessun sistema può funzionare quando i giovani camminano appoggiati sugli anziani.
Un paese normale dovrebbe funzionare al contrario.
Sosteniamo i nuclei familiari numerosi e le coppie giovani e torniamo a mettere al centro la ‘vita’. Secondo una recente ricerca della fondazione Forum Famiglie, il costo in Italia di un figlio dal primo anno di età fino al 18esimo compleanno è di circa 171 mila euro per un reddito medio.
Un condivisibile obiettivo fortemente voluto dall’esecutivo Conte bis, implicitamente condiviso anche da quello attuale, é quello di fare ordine nella giungla di aiuti alle famiglie ricominciando dall’assegno unico universale e superare le misure già esistenti come le detrazioni per i figli a carico, gli assegni al nucleo familiare e non ultimo il bonus bebè.
Aiutare anche i giovani che scelgono di posticipare la procreazione ad un’età superiore di 35 anni in cui, per ovvie ragioni biologiche, la fertilità è più debole. Un intervento pubblico importante può essere quello di coprire, almeno in parte, i costi molto alti e spesso inaccessibili della fecondazione assistita.
La politica deve risolvere il conflitto tra chi ha più e chi ha meno nel rispetto dell’uguaglianza sostanziale di cui il comma 2 dell’articolo 3 della nostra carta costituzionale, si fa promotore.
Conclusione
La preoccupazione del 2020 si è incentrata sulla salvaguardia della salute, specie dei soggetti più a rischio ma ora è necessario ripartire imboccando un percorso non subìto ma voluto nel rispetto di un principio ontologico di base: guardare a ciò che vogliamo diventare senza il timore di quello che potremmo perdere.
A chi serve destinare le risorse maggiori per la crescita socioeconomica del paese?
La crescita è strettamente dipendente dalla qualità della formazione delle nuove generazioni e della valorizzazione del loro capitale umano. Per capire, infatti, se un’economia sta andando nella direzione giusta, gli indicatori più informativi sono proprio quelli che riguardano i giovani. Il punto non è però assumere un ragazzo per ogni lavoratore che va in pensione ma assumere i ragazzi, dopo averli debitamente formati, per le loro competenze e per il contributo che possono apportare all’economia.
Chi meglio di un giovane può immaginare i lavori del futuro?
I nuovi arrivati portano uno sguardo originale sul mondo. Lo reinterpretano. Si prendano ad esempio le grandi trasformazioni attuate rispetto alle modalità di produzione, fruizione, partecipazione e condivisione e soprattutto delle nuove sensibilità di cui essi sono portatori (salvaguardia ambientale, innovazione tecnologica, diritti civili ecc...).
L’obiettivo di un giovane non è vivere in un Paese che realizzi paternalisticamente i suoi sogni ma quello di essere messo nelle condizioni di realizzarli con la propria sensibilità e al meglio delle proprie possibilità. Non c’è migliore investimento pubblico se non quello sulle nuove generazioni di oggi e di domani.
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