Giornata delle donne nelle STEM, l'impatto delle ragazze nella scienza


Oggi è la giornata mondiale delle donne nella scienza, nata per combattere il pregiudizio, privo di fondamento scientifico, secondo cui il genere femminile è "meno portato" per queste materie. Il problema è solo culturale. Il Gender Dream Gap inizia a 6 anni e col tempo non fa che peggiorare. Un pregiudizio estremamente dannoso che condiziona il futuro delle ricercatrici.

Giovani scienziate, ricercatrici, ragazze che si mettono in gioco con un obiettivo ben preciso in testa: cambiare il Mondo. Incontriamo le promesse della scienza italiana, che sognano di diventare sempre più numerose per lasciare un'impronta sulla vita degli altri.
Nella Giornata internazionale delle donne nelle STEM (ascronimo di science, technology, engineering and mathematics), vi facciamo conoscere Valenina Sesti, Chiara Plizzari e Arianna Bresci. Ne servirebbero molte, come loro. Eppure le donne restano ancora ai margini nei settori STEM, ovvero tutte le materie tecnico-scientifiche, dalla fisica alla chimica passando dalla robotica alla matematica e alle varie branche dell’ingegneria. Secondo l’ultimo rapporto UNESCO, solo il 33% dei ricercatori sono donne, nonostante rappresentino il 45% delle laureate e il 55% degli studenti di Master.

Valentina Sesti: "Passione per la chimica fin da bambina"

"La passione per la chimica ce l’ho sempre avuta fin da bambina  Mi è sempre piaciuto mescolare, fare, anche senza sapere cosa stessi facendo. Pastrocchi, insomma - racconta Valentina Sesti, dottoranda di Chimica al Politecnico di Milano - Quello di cui mi occupo adesso è la sintesi chimica dei materiali, quindi per spiegare meglio, quello che faccio è disegnare delle molecole e produrle in laboratorio, purificarle e poi sperimentarle e farle diventare medicinali. In questo momento, ad esempio, sto lavorando su una molecola che, nell'idea finale, dovrebbe essere utilizzata nelle cure contro le malattie degenerative della retina".

Chiara Plizzari: "I miei genitori mi hanno spronato a seguire quello che mi piaceva"

"Fin da piccola sono sempre stata un po’ nerd, mi piaceva giocare al computer, oppure con il Gameboy - dice Chiara Plizzari, dottoranda del dipartimento di Intelligenza Artificiale del Politecnico di Torino - Ho avutola fortuna perché i miei genitori hanno capito la mia passione e l'hanno accompagnata. Mi hanno sempre spronato a fare quello che mi piaceva e da questo punto di vista anche tutto il percorso che ho intrapreso lo devo alla spinta che mi hanno dato e alla libertà di scegliere un percorso e che non fosse guidato da stereotipi ma semplicemente dalla mia passione". 

Il lavoro con il gruppo Vandal

Chiara Plizzari è una dottoranda del gruppo della Professoressa Barbara Caputo. Il gruppo si chiama Vandal, che sta per Visual And Multimodal Applied Learning. "Quello che studiamo sono soluzioni di computer per problemi reali - prosegue Chiara - in particolare io mi occupo di egocentric vision. Studio come i sensori che vengono applicati alla persona, e quindi che riprendono il mondo attraverso i nostri occhi, possono aiutare un robot a percepire la realtà così come noi la percepiamo. Faccio l'esempio degli smart glasses: possono essere applicati a un lavoratore e nel momento in cui mettiamo insieme i parametri saremo in grado di prevederne le mosse e quindi creare sicurezza". 

Arianna Bresci: "Quando si fa ricerca si sa dove si inizia ma non dove si va a finire"

Anche Arianna Bresci è una giovane ricercatrice del Politecnico di Milano, con tanti sogni: migliorare la vita degli altri e riuscire a frequentare il master al Mit di Boston. "Quello di cui mi occupo sono tecniche di microscopia innovativa che sfruttano influssi di luce a bassa intensità per sviluppare una diagnostica per immagini totalmente non invasiva da portare in clinica per la medicina del futuro". In questo momento stanno testano un sistema che permette di capire se le cellule tumorali siano state trattate correttamente dalla chemioterapia. Se dovesse funzionare non ci sarà più bisogno di ulteriori radiazioni a carico dei pazienti, ma basteranno soltanto queste frequenze all'infrarosso. Una rivoluzione che potrebbe avere tantissimi altri impieghi. "Quando si fa ricerca si sa sempre dove si inizia, mai dove si finisce", sottolinea Arianna. 

Quando non c'erano neanche i bagni per le ragazze

I tempi sono cambiati, rispetto alle prime studentesse che hanno solcato i corridoi delle Università scientifiche italiane, come ricorda la Professoressa Donatella Sciuto, Prorettrice Vicaria del Politecnico di MIlano. "È molto diverso dai miei tempi - racconta la professoressa - Il numero di ragazze nella classe era veramente esiguo, si aggirava intorno al 3%, a dir tanto, nel mio corso di studi che era ingegneria elettronica informatica. Non c'era neanche il bagno per le ragazze, bisognava usare dei bagni comuni e trovare qualcuno che tenesse la porta, perché quelle che c'erano non erano particolarmente resistenti. Era un po’ più complicato e soprattutto c’era anche un po’, non voglio dire di ostilità ma sicuramente di pregiudizio nei confronti delle ragazze da parte di alcuni docenti. Non da parte dei compagni, perché quello non l'ho mai subito. Né tantomeno mi sono sentita discriminata nella mia carriera. Nel nostro settore conta molto il merito. Ma certo bisogna lavorare molto di più per ottenere gli stessi risultati. E questo significa fare molti sacrifici. Nel mio caso, ad esempio, ho dovuto rinunciare a passare tanto tempo con mia figlia".

Il Gender Dream Gap inizia a 6 anni

Sei anni. È a questa età che inizia a radicarsi il pregiudizio che le ragazze siano meno brave nelle materie scientifiche. Il primo anno delle elementari, come si chiamavano una volta, è quello in cui le bambine comnciano a fare i conti con un sistema che le vuole più portate per le materie umanistiche. Gli inglesi lo chiamano gender dream gap, la differenza di sogni legata al genere. E i numeri ci confermano questa realtà. In media a 15 anni, in Italia, il divario di genere in matematica è tra i più alti dei Paesi Ocse: 16 punti di differenza, contro una media di 5, secondo l'ultimo rapporto UNESCO. Eppure le differenze sono nulle nei Paesi scandinavi e negli Emirati Arabi. Cosa significa? Che non si tratta di una questione biologica, ma di fattori culturali e sociali. Non sono le ragazze a essere meno brave per "nascita", ma lo diventano col tempo, condizionate dal contesto in cui sono immerse.

La Prorettrice Sciuto: "Serve abbattere i pregiudizi sin dall'infanzia"

"C’è il pregiudizio che una persona non sia portata per le materie scientifiche, ma è bene sapere che nessuno nasce portato o non portato per qualcosa. - spiega la Prorettrice Sciuto - Sono l’ambiente, il contesto, anche gli insegnanti che si incontrano durante il percorso di studi, che creano questo tipo di pregiudizio. Il problema è che quando si appiccica addosso questa idea, poi rimane. Per questo bisogna lavorare moltissimo sui bambini. Dobbiamo fare in modo che questo pregiudizio non ci sia. Eppure se entrate in un negozio di giocattoli, vedrete che sono già divisi fra quelli per femmine e per maschio da quando hanno tre anni . I maschi hanno il piccolo chimico, il meccanico, mentre le ragazze hanno le bambole o altri giochi più di società".

La conquista della Luna "programmata" dalle donne

 "È uno stereotipo molto pericoloso, ma è pur sempre solo uno stereotipo. Un primo passo importante è rendersi conto che siamo di fronte a un mero pregiudizio- ricorda la Professoressa Barbara Caputo, a capo del Dipartimento di Intelligenza Artificiale del Politecnico di Milano - Mi piace raccontare un aneddoto: quando l’uomo è stato mandato sulla Luna, una grande parte della storia è stata la programmazione dei computer della NASA. Ecco, le programmatrici erano donne. Programmare, negli anni '60, era un lavoro da donne. Programmare significava preparare queste grandi schede e bucarle, poi infilarle nel compilatore in queste immense stanze dei computer. Non era un lavoro super pagato ed era un lavoro principalmente fatto dalle donne. Poi qualcosa è cambiato. Dai calcolatori giganteschi siamo arrivati a macchine sempre più piccole e il lavoro del programmatore è diventato economicamente più interessante. Adesso noi viviamo in un momento storico in cui ci dicono che programmare non è una cosa da donne. Non stiamo parlando di tre secoli fa. Quindi dobbiamo farci questa domanda: è veramente qualcosa di intrinseco o forse ci sono altre dinamiche in gioco? Questa è una riflessione che va fatta".

La professoressa Quackut su Topolino per parlare ai più piccoli

La professoressa Barbara Caputo, a capo del Dipartimento di Intelligenza Aritificiale del Politecnico di Torino, proprio per arrivare ai più piccoli e infrangere gli stereotipi di genere è finita anche su Topolino, grazie alla creatività e alla penna di Silvia Picca . "La mia famiglia ha il passaporto e la cittadinanza di Paperopoli - sorride divertita la Caputo - Io sono Barb Quackut, la papera che parla ai frullatori. In realtà in cucina ci parlo, ma poi fanno quello che vogliono loro. Ma nel Mondo di Topolino funziona. È  stata una sorpresa incredibile, mai nei miei sogni più sfrenati avrei pensato che mi capitasse una cosa così. È  stato bellissimo anche perché è stata accolta la mia richiesta di inserire nella storia i miei due figli. La più grande, Valeria, è diventata la dottoressa Valerie, e il piccolo Emilio è diventato il robottino Emilio. È un modo per parlare ai più piccoli, è un modo per normalizzare il fatto che una donna può avere tanti lavori, che ci sono tante cose che posso fare le mamme. Una delle cose che una mamma può fare, come dice mio figlio, sono gli occhietti ai robot".

Quegli stereotipi difficili da cancellare

"Fa un po’ pensare il fatto che quando noi donne parliamo del nostro lavoro come donne ricercatrici, scienziate, la prima reazione è sempre quella di stupore, come se fosse una cosa strana - dice Arianna Bresci - Ma sicuramente non ho mai sentito questo preconcetto addosso al punto da essere qualcosa capace di incidere dal punto di vista formativo, né tantomeno in ambito lavorativo. Credo che questi pregiudizi ci siano ma non dobbiamo lasciarci condizionare. Dobbiamo far valere il nostro talento, è l'unica cosa che conta. "Per me non è stato difficile perché la mia famiglia, il contesto in cui sono scresciuta, non mi ha mai dato motivo di pensare che fosse strano il percorso che volevo intraprendere - racconta Valentina Sesti - Ma è capitato che mi si chieda se sono sicura della scelta che ho fatto. Mi domando se la stessa cosa la chiederebbero anche a un ragazzo." "Penso che quello che stiamo facendo sia un buon punto per poter fare qualcosa utile alla comunità, visto che ormai ovunque il digitale si sta affermando - aggiunge Ciara Plizzari - Questa scelta permette di fare qualcosa che possa avere impatto sulla società, sulle altre persone".

Gli algoritmi amplificano le discriminazioni

Quando parliamo di impatto dobbiamo pensare che esiste un pericolo, sancito dall'Unesco, che riguarda gli stereotipi di genere: gli algoritmi hanno il potere di diffondere e rafforzare i pregiudizi di genere, che rischiano di emarginare ulteriormente le donne, su scala globale. "Viviamo in un momento in cui cui si sta digitalizzando tutto: un video è ormai un segnale digitale, il nostro orologio crea dati digitali. Da quello che noi facciamo durante la giornata il telefono crea nuove informazioni, ovunque noi andiamo nel mondo, sempre di più, il nostro interagire, il nostro vivere, viene trasformato in dati - spiega la Professoressa Caputo - Tutti questi dati devono essere raccolti e quindi c'è bisogno di un'intelligenza artificiale che li analizzi. Se il modo in cui questi algoritmi guardano i nostri dati è parziale, ovvero se ne prendono solo alcuni e altri no, la realtà che costruiamo è parziale. Faccio un esempio gender neutral:  immagniamo che fra tutti i dati che abbiamo decidiamo di ignorare quelli che riguardano le funzioni cardiache. Potremmo avere molte avvisaglie per capire che una persona è a rischio infarto, ma scegliamo di non registrare quei dati e quella persona morirà per un infarto. La stessa cosa accade ogni volta che i dati vengono elaborati con questo sistema. Noi stiamo perdendo qualcosa di importante quando si va a selezionare qualcuno per un posto di lavoro, ad esempio, a causa degli algoritmi. Il problema è che non teniamo conto di quelle che sono le diversità delle donne, in primis biologiche, ma non solo. Le donne sono, piaccia o non piaccia , il 50% della popolazione. Se si usano algoritmi che vanno ad automatizzare decisioni  che non riguardano tutta la società, le donne vengono discriminate. Io credo che invece abbiamo il sacrosanto diritto di essere rappresentate e questo potrebbe essere bypassato se le donne fossero più presenti nella scienza. Un ruolo fondamentale lo fanno gli attori economici, che decidono su cosa investire o meno. Quindi se nel tavolo in cui si prendono le decisioni è rappresentata soltanto una parte, le decisioni saranno sempre dì parte".

Con la parità nelle STEM 12 triliardi di dollari in più

Bisogna esserci, per evitare questo rischio. Anche perché se raggiungessimo la parità di genere nelle STEM, entro il 2025 il Pil mondiale aumenterebbe di 12 triliardi di dollari, secondo Mckinsey. "Siamo pervasi dalla tecnologia ed è l’ambito in cui combinare le competenze tecnologiche con delle competenze sociali e di soft skills umanistiche è fondamentale - conclude la Prorettrice Sciuto - Credo che ormai serva avere le competenze tecnologiche per poter fare qualunque cosa. Ecco perché è importante che le ragazze intraprendano questo tipo di percorsi di studi".

Caputo: "Le donne sono grandissime creative"

"Alle ragazze voglio dire che oggi, in questo momento storico, fare intelligenza artificiale, fare discipline che hanno a che fare con la scienza,  significa veramente avere l’opportunità di inventare un mondo nuovo - aggiunge la Professoressa Caputo - Le donne sono grandissime creative, hanno una grande capacità di coniugare la voglia di fare bene con la voglia di fare del bene. Quindi se c’è un momento in cui c’è bisogno delle ragazze al tavolo è adesso". "Quello che voglio dire alle ragazze è di non avere paura di sentirsi sole, perché non è vero. Non siamo tantissime, sì, ma ci siamo. Nel mio caso, ad esempio, mi è capitato di lavorare in una squadra fatta di quattre donne - dice Valentina Sesti -  Avere la possibilità di studiare qualcosa di così innovativo, in un ambiente dove c’è costante ricerca come la scienza è una cosa straordinaria, donna o uomo non importa. In questo caso venite ragazze". 

Fonte skytg24

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