Gli artisti mediorientali di fronte alla pandemia
“Senza una grande solitudine nessun lavoro serio è possibile”. La frase, attribuita a Picasso da uno scrittore spagnolo, è apparsa questo mese sul sito di una galleria d’arte di Istanbul, tra le tante che nelle ultime settimane sono state costrette a chiudere in tutto il mondo, in seguito alle misure adottate dai governi per contenere la pandemia di covid-19.
Queste parole potrebbero essere di qualche conforto agli artisti durante il lockdown causato dal coronavirus. Alcuni di loro lavorano da casa, altri nel proprio studio, mentre il mercato dell’arte attraversa la stessa contrazione economica di qualsiasi altro settore. Le piccole gallerie d’arte potrebbero essere in una posizione migliore per mettere in pratica le regole del distanziamento sociale, ma di solito le vendite nel campo dell’arte seguono il declino generale dell’economia.
Gli artisti hanno trovato risposte differenti alla pandemia, al lockdown globale che l’ha accompagnata e alle proprie particolari condizioni di vita. Alcuni hanno scelto di ignorarla o di rifugiarsi nel proprio mondo, altri di affrontarla.
Uno degli artisti più famosi, il britannico David Hockney, di 82 anni, ha pubblicato una serie di dipinti realizzati su iPad nella sua casa in Francia, tra cui una foto di lucenti narcisi in fiore intitolata “Ricorda, non possono cancellare la primavera”. “Il mio suggerimento alle persone in questo periodo è di disegnare”, ha detto dalla sua casa in Normandia, incoraggiando la gente a prendere in mano una matita, non una fotocamera.
Il cinese Ai Weiwei (che in passato ha suscitato scalpore con delle fotografie di se stesso nella medesima posizione di un bambino siriano tragicamente naufragato e trascinato a riva) ha reagito al covid-19 pubblicando su Instagram le foto delle sue conversazioni su Facetime con la madre.
Maysaloun Faraj, artista di origini irachene che vive a Londra, ha optato per qualcosa di più tradizionale. Ha avviato un gruppo Facebook che ha chiamato Stayhome: Drawhome! (Resta a casa. Disegna casa!), che ha superato i trecento partecipanti. Gli artisti, dilettanti e professionisti, sono invitati a mandare nuovi lavori in cui sono rappresentate le proprie case “viste da dentro”.
Faraj ha lasciato l’Iraq per la prima volta nel 1982, e ci è tornata poco prima dell’operazione Desert Storm nel 1991. Anche se l’attuale crisi impallidisce in confronto alle esperienze del suo paese di origine, le circostanze di oggi e la solitudine forzata le hanno rievocato alcuni ricordi di quando studiava architettura all’università di Baghdad negli anni settanta. All’epoca si esercitava realizzando schizzi delle case tradizionali di Baghdad sulle rive del Tigri.
Pittrice, scultrice e ceramista i cui lavori figurano nelle grandi collezioni europee e mediorientali, Faraj si è impegnata a promuovere l’arte irachena sulla scena internazionale. Tipicamente le sue opere consistono in grandi astrazioni geometriche. Oggi trova “enorme piacere, pace e conforto” nel disegnare ogni centimetro della sua casa da tutti i punti di vista possibili. E i risultati sono incantevoli.
“Nonostante l’incertezza e il caos di questo tempo, c’è stata un’abbondanza di solidarietà, umanità, gioia e bellezza nel mondo, e la ‘terra’ per la prima volta è in pace”, ha detto a Middle East Eye. “Mi sento più connessa, non solo al presente e alle cose più importanti, ma anche al passato. Rivivo preziose memorie di quella che era una volta la mia casa in quella città d’oro nel cuore della culla della civiltà”.
Tra le artiste presenti nel gruppo di Faraj c’è Oroubah Dieb, anche lei autrice di opere meravigliose tra le mura di casa. Dieb è un’ex insegnante di arte di Damasco e oggi vive a Parigi con il marito Hammoud Chantout, anche lui artista, e la loro figlia.
Le leggi francesi sul confinamento le impediscono di allontanarsi da casa per più di un chilometro. Dieb e suo marito, che hanno lasciato la Siria otto anni fa per stabilirsi in un primo momento a Beirut, hanno studiato arte all’università di Damasco e prima della guerra gestivano una scuola d’arte privata nella capitale siriana. Oggi non insegnano più, vivono dei propri risparmi e di qualche mostra allestita in zona. “Stare in casa è un’opportunità per meditare e riposarsi un po’ dal tumulto della vita di qui. Ma in Siria soffriamo tanto da nove anni. Purtroppo, le notizie di morte non hanno nulla di nuovo per noi”, ha detto a Middle East Eye.
Le reazioni alla crisi
All’inizio la guerra in Siria ha spinto alcuni artisti a creare opere digitali, come fotografie e video, più facili e più sicure rispetto a dipingere in uno studio, anche considerando che utensili e materiali artistici non sono esattamente una priorità in tempi di guerra. Il British Museum ha raccolto le opere rappresentate sui manifesti di protesta sin dai primi giorni della guerra in Siria, e oggi i curatori guardano con interesse allo Yemen e al Libano in cerca di forme d’arte simili.
Una mostra di opere mediorientali moderne su carta, acquistata per il British Museum da un comitato di mecenati della regione sotto l’occhio vigile di Venetia Porter, curatrice della sezione di arte islamica e contemporanea del Medio Oriente, che era prevista entro la fine dell’anno, contiene anche delle mappe dell’artista Nazgul Ansarina, in risposta alle sanzioni contro l’Iran. Tra le altre opere ci sono le rose fabbricate con le pagine dei quotidiani che riportano discorsi politici, dell’artista tunisina Héla Ammar, e Street, realizzata nel 1993 dall’irachena Hannaa Mallalah con la sua “tecnica delle rovine”, usando tessuti recuperati e danneggiati per raffigurare la distruzione della guerra.
Tra le ultime acquisizioni del British Museum in questo gruppo, per lo più ottenute dal 2009 in poi, ci sono le impressionanti figure in bianco e nero del libanese Paul Guiragossian, con le sue La Misere Humain e La Mere Doloreuse, che esplorano la sofferenza degli armeni.
In un’installazione a parte del 2014, Homesick (Nostalgico), l’artista siriano emigrato Hrair Sarkissian ha adottato un approccio diverso. Ha ricreato in scala un modello dell’appartamento di famiglia a Damasco e poi si è filmato mentre lo distruggeva con un grosso martello. Non esattamente il tipo di cose da fare durante un lockdown.
Alcuni artisti mediorientali hanno affrontato l’attuale pandemia globale in modo diretto. Il celebre artista Athar Jaber, nato a Roma da genitori iracheni e residente ad Anversa, in Belgio, ha scolpito dieci mascherine in marmo e le ha messe in vendita a mille euro l’una. Il progetto, chiamato Una maschera per la vita, è parte di un’iniziativa di raccolta fondi dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) per far fronte all’epidemia. “Per i profughi è impossibile rispettare il distanziamento sociale”, denuncia Jaber. “Circa 70 milioni di persone si trovano in campi affollati e attendono con terrore l’arrivo della pandemia di coronavirus”.
L’artista iraniano Parviz Tanavoli, le cui opere sono state tra le più vendute nelle aste della regione, ha ideato delle medaglie commemorative di bronzo e argento che saranno vendute a cifre comprese tra i 600 e i 1.500 dollari per raccogliere denaro per il personale sanitario iraniano.
‘Insistere, insistere’
Ma la maggior parte degli artisti semplicemente cerca modi di continuare a creare nonostante le restrizioni.
Il fotografo di moda turco Osman Özel ha realizzato un diario video e fotografico del tempo che ha trascorso in quarantena di ritorno da Parigi in un dormitorio alla periferia di Istanbul, dove erano ospitate oltre tremila persone. La moglie poteva andare solo per portargli beni di prima necessità, ma non poteva vederlo.
“Nella mia camerata posso solo aprire la finestra. Non posso andare in corridoio o in giardino. Senza spazio, tutto questo tempo diventa insignificante. Non posso stare fermo”, ha scritto nel diario pubblicato sul sito dell’Odunpazari modern museum, che sarà chiuso almeno fino a fine maggio. Da diversi mesi Özel lavorava a un documentario sul carcere e quest’esperienza “mi ha fatto capire cosa significa stare in prigione”, ha detto. Ha scelto di parlare sempre meno al telefono, mentre ha continuato a fare foto.
Molti artisti e collettivi turchi hanno lavorato per organizzare mostre, performance e “dialoghi”. Anche online, hanno creato momenti di scambio e discussione su alcune delle opere che stavano realizzando nel corso di queste dodici settimane.
In un paese che si avvia ad avere i più alti tassi di contagio nella regione, la nota artista turca Nancy Atakan ha cominciato ad approfondire lo studio dei sistemi temporali del passato, “in particolare il concetto ottomano del tempo, perché per me il tempo sembra non esistere più allo stesso modo di un mese fa”. Avendo più di 65 anni, dice, non esce di casa da quattro settimane. “Gli artisti in Turchia sono abituati alle difficoltà, al caos e all’incertezza”, spiega a Middle East Eye. Ma poi aggiunge: “In tutta la mia vita non ho mai vissuto niente di simile a questo blocco totale. Ci sono state penurie, coprifuochi e restrizioni, soprattutto negli anni settanta e ottanta, ma mai una cosa del genere”.
Nel 2012, continua, una curatrice svizzera, Susann Wintsch, ha trascorso diversi mesi in Turchia visitando gli atelier degli artisti. La mostra che è seguita è stata intitolata Keeping On Keeping On, “Insistere insistere”, a sottolineare la tenacia degli artisti turchi. Secondo Atakan “Il titolo è appropriato, perché a quanto pare noi andiamo avanti, indipendentemente da quello che ci capita. Senza dubbio troveremo un modo di creare opere d’arte di fronte a un futuro ancora più incerto”.
Nella città di Tours, nella provincia francese dove vive e lavora, l’illustre artista algerino Massinissa Selmani per andare al suo atelier deve portare con sé una carta firmata in cui dichiara dove sta andando e perché. Ogni volta deve convincere dei poliziotti confusi che lui fa l’artista e che sta andando in auto verso il suo atelier in periferia. “Quando dico che sono un artista restano un po’ stupiti. Non sanno cosa vuol dire esattamente, ogni volta devo impiegare qualche minuto a spiegare che è il mio mestiere a tempo pieno”.
I disegni di Selmani mostrano persone in situazioni strane, surreali, con beffarde allusioni a commento di fatti politici e sociali. Oggi avrebbe dovuto essere in Algeria, in visita ai suoi anziani genitori, che non escono quasi mai. A marzo avrebbe dovuto esporre alcune opere al Drawing Now, la fiera d’arte di Parigi, che è stata rimandata. Invece ora rilegge la letteratura algerina per rilassarsi, e lavora ai suoi progetti per mantenere un “ritmo normale”. “Non reagisco mai subito”, commenta.
Giardinaggio sul terrazzo
Quando è iniziato il lockdown l’artista palestinese Hazem Harb aveva appena finito di esporre la sua prima mostra personale, Contemporary Heritage, alla Tabari artspace gallery di Dubai, l’esito di un lavoro durato sei mesi. “Essendo palestinese, sono abituato a coltivare la creatività in situazioni di restrizione”, dice. Invece di lamentarsi, Harb si è messo a lavorare per preparare un tour virtuale. Attualmente impegnato a disegnare e fare ricerca nel suo studio di Dubai, Harb è un astro nascente le cui riflessioni nostalgiche sulla vita palestinese sono state esposte in tutto il mondo.
“Le tensioni e i cambiamenti sociali inevitabilmente avranno un impatto sull’arte, così come su tutto il resto, dalla politica all’economia, ma non deve necessariamente essere diretto né ovvio”, dice, citando un’altra frase di Picasso, grande maestro dell’arte moderna e creatore di Guernica. “Io non ho dipinto la guerra”, disse il pittore spagnolo, in un momento in cui l’Europa cominciava a riemergere dalla violenza della seconda guerra mondiale. “Ma senza dubbio nelle mie immagini c’era la guerra”.
Nella Striscia di Gaza, dove le strade si sono svuotate dopo l’annuncio dei primi due casi di coronavirus da parte del ministero della sanità il 22 marzo, l’artista palestinese Mohammed al Hawajri ha cominciato ad appuntare idee per la vita dopo la crisi, affermando di non poter creare opere d’arte che rappresentassero la pandemia, “perché la tragedia è più grande dell’idea di opera d’arte”.
Poi Al Hawajri, le cui opere spaziano dalle sarcastiche installazioni di un tappeto rosso sullo sfondo di Gaza alla ritrattistica, ha deciso di produrre immagini ispirate alla cantante araba e icona culturale Umm Kulthum raffigurandola con una mascherina sul viso. Oggi passa il tempo facendo giardinaggio sul terrazzo di casa. Gli artisti avranno tantissimo materiale su cui lavorare dopo il virus, dice, facendo riferimento anche al fatto che gli uomini stanno svolgendo mansioni domestiche come cucinare, pulire e impastare.
Al Hawajri racconta dello “stato di paura” in cui vivono due milioni di persone che abitano la sovraffollata enclave palestinese ed elogia le “iniziative nei cortili” di musicisti e cantanti che diffondono melodie dalle loro case. “Dico sempre che sono fortunatissimo a essere un artista”, spiega. “Passo la vita all’interno del mio studio, dove riesco a scampare a guerre e assedi. Attingo sempre al mio mondo, ed esprimo le mie inquietudini e quelle che mi circondano con gli strumenti più semplici che possano arrivare al resto del mondo”.
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